Studi sperimentali, ibridi e pragmatici, RWD e RWE: serve ora uno standard regolatorio

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I Dati sono la vera ricchezza ed il vero cruccio da alcuni anni a questa parte. Valore, perché consentono di mappare e rispondere a bisogni, desideri e interessi dell’umano universo. Cruccio, perché quello che manca non è la loro quantità ma la loro qualità. Soprattutto nel settore delle Life Sciences. Anche il nostro PNRR nella missione Salute stanzia oltre 15 miliardi di euro per l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del Sistema Sanitario Nazionale a partire dalle infrastrutture digitali preesistenti. Real World Data e le Real World Evidence, sono una voce importante delle progettualità richieste. Il tragitto, soprattutto nella ricerca clinica, è ancora lungo ed irto in Italia, ma qualcosa si sta muovendo. Ne parlo con Giovanni Fiori, già fondatore e past President di Medineos e oggi consulente esperto in progetti sull’utilizzo di RWD.  

D: Dottor Fiori, ci spiega brevemente cosa si intende per RWD e RWE?

R: Real Word Data (RWD) è un neologismo che letteralmente significa dati del mondo reale e si riferisce alle informazioni che possono essere estratte da una corretta elaborazione di dati che vengono raccolti con metodo osservazionale. RWD perché l’accento è oggi posto sul fatto che essi derivano dal cosiddetto “mondo reale”. Con essi possiamo quindi generare delle conoscenze che chiameremo con un nuovo neologismo Real Word Evidence (RWE).  Qui si apre un tema delicato, relativamente a cosa si intende per Evidenza al di là del suo significato semantico. Negli ultimi 50 anni, la ricerca clinica ha fatto un percorso di transizione, passando dal prendere decisioni sulla scia della cultura e dell’esperienza delle singole scuole mediche a decidere sulla base di evidenze oggettive, generate con metodo scientifico e riproducibili. Sostanzialmente, prima le scelte terapeutiche erano collegate esclusivamente al metodo sperimentale l’unico ineccepibile per dimostrare la superiorità di un farmaco rispetto ad un altro. Oggi invece ci si è resi conto che le evidenze che derivano da studi di tipo sperimentale, cioè randomizzati e controllati, possono dimostrare che un certo principio attivo, una certa molecola, possa avere effetti che possono essere riprodotti in altri studi sperimentali simili, ma non è sempre detto che tale effetto sia proprio quello che si realizza nella pratica clinica reale. Da qui nasce l’attenzione per quello che è evidenza nel mondo reale introducendo così il concetto di complementarità delle informazioni. Nessuno mette in discussione la bontà dei risultati che derivano da un robusto metodo di sperimentazione clinica, ma il tema è quello di non accontentarsi, cercando di utilizzare i risultati della sperimentazione in un contesto reale, quello in cui verranno poi utilizzati i farmaci, meno selezionato e controllato, per capire se “reggono l’urto”…con la realtà.

D: Studi clinici con metodologia sperimentale ed osservazionale: come utilizzarli per generare RWE?

R: Per generare la RWE la cosa più comune è utilizzare gli studi osservazionali, ma in realtà anche utilizzando il metodo sperimentale si può generare RWE. Per esempio, con i cosiddetti studi clinici pragmatici. Mi chiarisco aprendo una parentesi: noi siamo abituati a pensare agli studi sperimentali, ovvero i trial clinici controllati randomizzati come ad un unicum, ad una specifica tipologia di studi clinici. In realtà, dipende tutto da come si disegna il protocollo di studio. A seconda che si scelgano specifici criteri per l’inclusione o l’esclusione, si definisca la popolazione ed il set per effettuare lo studio, si potrà passare da trials “esplanatori“, dove l’obbiettivo è dimostrare che la molecola A è meglio della molecola B, ad obbiettivi più pragmatici ed avvicinarci al mondo reale. Gli studi clinici pragmatici sono di fatto degli studi osservazionali che però utilizzano la randomizzazione per la gestione dei confondenti non noti. In questo caso la scelta dell’esposizione al trattamento non è più del medico, ma del protocollo, che tramite la randomizzazione assegna un farmaco o un altro. Di conseguenza usciamo dal metodo osservazionale ed entriamo nel metodo sperimentale. In altre parole: la scelta dei “filtri” per individuare ed esaminare i pazienti è quella di uno studio osservazionale, mentre la gestione del protocollo è sperimentale. Un po’ come se avessi entrambi questi metodi nella cassetta degli attrezzi e li utilizzassimo, con metodo, secondo necessità.

D: Una definizione sintetica di studio osservazionale?

R: È uno studio in cui l’esposizione al determinante, ovvero la tecnologia sanitaria oggetto dello studio, rimane passiva. In altre parole, per usare i termini del mondo regolatorio, la decisione di prescrivere il farmaco è del tutto indipendente da quella di includere il paziente nello studio. Di fatto, il medico, nella sua normale routine decide di esporre un paziente ad una determinata strategia terapeutica e sulla base di ciò si potrebbe trovare nella condizione che questo paziente entri o non entri in uno studio osservazionale che ha per oggetto quel tipo di esposizione. Cosa molto diversa dal metodo sperimentale, dove arruolo i pazienti e, sulla base della randomizzazione, assegno per protocollo il paziente A ad un tipo di trattamento e il paziente B ad un altro. Purtroppo, in Italia abbiamo solo una norma ormai obsoleta, che regolamenta gli studi osservazionali sul farmaco, la Linea Guida AIFA del 2008. Stiamo invocando da anni un rinnovo che spero arrivi entro il 2024 poiché manca in questo documento l’indicazione di un processo etico ed autorizzativo aggiornato ed attuale per condurre gli studi osservazionali sui farmaci ed è inoltre privo di precisi riferimenti agli studi osservazionali per i dispositivi medici e all’utilizzo dei RWD per uno studio epidemiologico. E’ un vuoto normativo importante. L’Europa si sta muovendo, ha molte iniziative, ma tutto procede a rilento. Negli Stati Uniti, invece, la FDA, nel settembre 2023, ha promulgato delle linee guida per l’industria sugli studi osservazionali sui farmaci e biologici utilizzando per definirli lo stesso neologismo “non interventional studies”, utilizzato dalla Commissione Europea, dall’EMA e dall’AIFA ma superandone i limiti e definendoli in modo metodologicamente corretto.   

D: Si parla sempre più spesso dell’utilizzo di dati RW per integrare i trial sperimentali, anche tramite l’esecuzione dii studi “ibridi”: di che cosa si tratta?

R: Con studi ibridi si intendono due cose molto diverse fra loro. Da un lato, si possono usare nello stesso studio dati raccolti appositamente per esso (Primary data collection)  e  anche dati già disponibili (Secondary use of health data). Per esempio, si potrebbero arruolare i pazienti in uno studio osservazionale prospettico e contemporaneamente, oltre a raccogliere i dati previsti dal protocollo su questi pazienti, utilizzare anche loro dati che sono stati raccolti per tutt’altri motivi e tutt’altra necessità (per esempio database amministrativi sanitari). Studi ibridi sono, però, definiti anche gli studi che utilizzano un metodo sperimentale ed osservazionale. Per esempio, uno studio randomizzato e controllato che usa come braccio di controllo pazienti che non sono arruolati per lo studio ma i cui dati sono disponibili perché già raccolti in un registro. Quindi io ho un trial clinico randomizzato su un braccio di esposti alla terapia sperimentale ed un controllo fatto su un braccio esterno allo stesso trial clinico che vado a popolare con i dati di pazienti per cui sono già disponibili queste informazioni nel modo reale. Anche qui lo scopo è spostare i risultati del trial clinico quanto più possibile nel mondo reale. Quello che fa la differenza è puntare sulla validità interna o su quella esterna. La prima, per dimostrare che il farmaco possa funzionare, è propria dei trial clinici sperimentali, mentre gli studi clinici pragmatici puntano, invece, sulla ricerca in fase preliminare di una maggiore validità esterna.  

D: Quali sono le sfide operative e metodologiche nell’utilizzo dei dati secondari e più in generale per l’utilizzo di dati RW?

R: È un tema molto attuale perché ci consente di argomentare una validità esterna dei risultati e di verificare cosa succederà effettivamente nel mondo reale. Mescolare trial clinici pragmatici e studi osservazionali ci consente di produrre informazioni che non sono solo esplorative ma che possono essere utilizzate anche per scopi regolatori. Negli ultimi anni e ancor più negli ultimi mesi, in Europa ed in USA si parla di utilizzare i RWD per scopi regolatori, per prendere decisioni sulla messa in commercio e la rimborsabilità dei farmaci. Tutto questo introduce due necessità: un grandissimo rigore metodologico nel disegnare gli studi con questo metodo e una profonda conoscenza delle tecniche che devono essere applicate per la loro corretta gestione. Quindi la prima sfida che ci attende è utilizzare molto bene queste tecniche a partire dalla corretta e chiara definizione di cosa si sta facendo perché gli strumenti sono molti (Primary  data collection, Secondary use of health data, studi pragmatici, studi ibridi, … ) ed occorre evitare la confusione. L’altra grande sfida è quella dell’accessibilità ai dati perché se è vero che i dati già presenti nei registri sanitari e database amministrativi rappresentano una grande fonte di informazioni è anche vero che l’accesso a tali fonti di dati è ancora molto complicato. Le ragioni sono varie. La Privacy, che in Italia dà una lettura molto restrittiva della normativa Europea, condizionando i titolari dei dati che faticano a fornirli per il rischio di incorrere in pesanti sanzioni. Altra questione è la struttura e la regolamentazione dei registri pubblici che possono non essere tecnicamente accessibili a soggetti esterni al circuito informatico interno. C’è quindi un tema di Governance non pronta a fare fronte ad uno scambio dei dati fra sistema sanitario, associazioni scientifiche e mediche che tutte raccolgono e registrano dati, possibili fonti di informazioni o, meglio, evidenze potenzialmente utili se condivise.

D: Una sua opinione sul futuro dei big data nelle life Sciences.

R: Di big data si parla e si riparla. Bisogna anche considerare lo sviluppo dell’AI e delle sue potenzialità nella raccolta e gestione di informazioni. E’ ovvio che i dati in sanità rappresentano una straordinaria ricchezza, occorre però saperla utilizzare al meglio partendo proprio dalla conoscenza metodologica. Fuori dalla sanità chi ha i dati governa il mondo. Nel settore life sciences sono importanti per capire quei fenomeni che sfuggono agli studi tradizionali, ovvero ciò che effettivamente accade nei reparti ospedalieri e negli studi medici di tutto il mondo dove milioni anzi miliardi di pazienti vengono ogni giorno esposti a procedure diagnostiche e terapeutiche che costano e assorbono risorse straordinariamente enormi, talvolta con risposte diverse da quelle inizialmente osservate nei trial, perché appunto accadono nel mondo reale. Il futuro va li, ma non basta il “big” per risolvere tutti i problemi. I dati oltre che tanti devono essere di qualità e  gestiti in maniera corretta.  C’è poi il grandissimo tema della loro trasparenza. Io devo sempre dimostrare che i dati abbiano effettivamente detto quello che poi andrò a pubblicare. Quindi deve esserci la tracciabilità degli algoritmi e delle informazioni. Si sta lavorando per definire gli standard a livello internazionale ma c’è ancora tanto da fare.