Semplificazione normativa e centralizzazione delle decisioni accenderebbero il motore alla ricerca clinica in Italia, favorendo così gli investimenti in questo settore e la diffusione di terapie innovative per i pazienti.
È quanto è emerso nel corso del convegno “Ricerca clinica in Italia”, organizzato a Roma, presso la sede dell’Istituto Superiore della Sanità, da FADOI, la Società scientifica dei medici internisti ospedalieri, lo scorso 20 settembre.
Un incontro durato tutta la giornata che ha visto confrontarsi fra loro i massimi esperti scientifici e i rappresentanti delle Istituzioni su temi quali: la ricerca clinica e i suoi gap, gli investimenti del PNRR per l’obbiettivo salute, la normativa in essere ed in itinere, le innovazioni tecnologiche per curare malattie rare, croniche ed oncologiche.
L’esperienza della pandemia CoViD-19 ha svelato le reali potenzialità della ricerca clinica che è riuscita a riunire, in emergenza, le principali competenze scientifiche disponibili, e ad organizzare il lavoro con efficienza ed efficacia.
La ricerca ha permesso di raggiungere il traguardo della disponibilità dei vaccini in un tempo sorprendentemente rapido, e ciò è stato possibile attraverso una ampia condivisione di informazioni e di dati all’interno del mondo scientifico, alla velocizzazione di alcuni iter a livello regolatorio, e a un partenariato pubblico-privato che ha messo a fattor comune esperienze e risorse economiche.
La sfida è ora quella di far tesoro dell’esperienza maturata e di offrire opportunità stabili di crescita alla ricerca biomedica in generale e a quella clinica in particolare. Partendo dal presupposto che, nello specifico della realtà italiana, la ricerca clinica non viveva, in epoca pre-CoVID, una situazione brillante se è vero che in dieci anni, dal 2009 al 2019, si è per esempio osservata una riduzione del 50% dei trial clinici no profit sul farmaco.
Per approfondire questi temi ho intervistato il professor Dario Manfellotto, Medicina Interna e Dipartimento Discipline Mediche presso Fatebenefratelli isola Tiberina e Gemelli-isola, Presidente Nazionale FADOI.
D: Professor Manfellotto, quali sono secondo Lei le principali ragioni della situazione critica in cui versa la ricerca clinica italiana?
R: Da anni chi è impegnato nella ricerca clinica lamenta carenza di investimenti, scarsa attenzione alla valorizzazione dei ricercatori e delle figure professionali di supporto, limiti infrastrutturali, eccessi di burocrazia e criticità normative.
Se a questo aggiungiamo le difficoltà con le quali sempre più si confronta il personale sanitario che oltre che a garantire l’assistenza dovrebbe poter seguire anche progetti di ricerca, e una scarsa attitudine nel nostro Paese a “fare squadra” per esempio attraverso le collaborazioni pubblico-privato, possiamo comprendere che la situazione non è delle più semplici né incoraggianti.
E ciò fa ancora più dispiacere tenendo conto delle eccellenze che il nostro sistema sanitario e della ricerca è in grado di esprimere, e della capacità di generare innovazione che il nostro Paese ha più volte dimostrato.
D: Arriviamo al confronto fra ricerca clinica pubblica e privata. La prima arranca fra mille criticità, la seconda continua ad investire per realizzare prodotti di cura, ma trova spesso difficoltà burocratiche che compromettono il business plan dei costi/benefici del prodotto. Nel tragitto ci sono i Comitati Etici. Le recenti normative Europee hanno modificato il loro ruolo e intervento nei processi autorizzativi. Lei cosa ne pensa?
R: Anche nella ricerca clinica una eccessiva burocrazia provoca rallentamenti e spreco di risorse. A questo si aggiunge una stratificazione e una ridondanza normativa che spesso genera confusione, sia in chi fa ricerca in un centro ospedaliero, sia in chi vorrebbe giocare una fiche anche in Italia investendo su studi clinici che possono creare nuove terapie per patologie importanti.
Molte realtà estere che investivano tradizionalmente sulla nostra ricerca tendono a spostarsi verso altri Paesi. Un esempio per tutti la Spagna, che ha visto crescere in maniera molto importante il proprio ruolo nella ricerca clinica internazionale. E ciò soprattutto dopo che, dal 2015, quel Paese ha adottato un unico testo legislativo che disciplina tutta la materia.
Per venire ai Comitati Etici, il Regolamento europeo per le sperimentazioni cliniche sui medicinali entrato in attuazione a inizio 2022 ha introdotto nel nostro Paese una semplificazione, nel senso che per uno studio clinico sarà necessario un unico parere di un Comitato Etico che varrà su base nazionale.
Si tratta di un buon passo in avanti, che ci auguriamo possa essere esteso anche alle altre tipologie di ricerca, per esempio quella osservazionale per la quale, pur trattandosi di una modalità che di norma non pone rischi per il paziente, in Italia continua ad essere necessario il parere di tutti i Comitati Etici ai quali afferiscono tutti i centri che partecipano alla ricerca.
D: L’innovazione digitale può portare a realizzare prodotti per la salute che possono migliorare le condizioni di vita del paziente o addirittura curare con successo alcune patologie. Le cosiddette terapie digitali sono, infatti, utilizzate in oramai numerosi Paesi europei ed extraeuropei. In Italia anche per quanto riguarda questi prodotti siamo in ritardo e le difficoltà sono non indifferenti. Lei cosa ne pensa?
R: Le terapie digitali sono un mondo in rapida evoluzione che contiene in sé notevoli potenzialità. La principale è ovviamente quella di offrire una opzione terapeutica che si possa affiancare alle procedure tradizionali e portare un beneficio al paziente in numerose patologie croniche.
Ma si pensi anche alla quantità di informazioni che vengono raccolte da queste app durante il loro utilizzo, e che possono da un lato consentire progressive ottimizzazioni del prodotto, dall’altro fornire un controllo dei pazienti più stringente e real-life, e offrire spunti per approfondimenti di ricerca.
Purtroppo, ad oggi, continua a non essere ben chiaro nel nostro Paese il percorso di autorizzazione, quello di accesso e possibile rimborso di questi prodotti, ciò che non incentiva i produttori. Inoltre, anche le terapie digitali devono essere sottoposte a un rigoroso percorso di valutazione e validazione sperimentale clinica, e stante l’elevata velocità di obsolescenza di questi prodotti, per essi è ancor più importante la rapidità e l’efficienza con le quali possono essere sviluppate.
Un sistema di ricerca poco efficiente rischia quindi di penalizzare in maniera significativa anche lo sviluppo di questi prodotti, che invece sarebbe particolarmente adatto all’ecosistema culturale e imprenditoriale italiano.
D: PNRR e obbiettivo salute. Circa 4 miliardi di euro per la digitalizzazione del Sistema Sanitario Italiano. Lei che è sul campo che polso ha del work in progress?
R: Il Piano Nazionale ha focalizzato tre interventi principali: Il fascicolo sanitario elettronico, la piattaforma digitale nazionale su cui poggia il servizio sanitario nazionale e la telemedicina. Perché gli obiettivi possano essere efficacemente raggiunti è necessario che funzioni il dialogo fra sistemi regionali, e fra questi e quello nazionale, una dinamica non scontata e che non sarà facile realizzare.
Sarà necessario minimizzare le eterogeneità tecnologiche, e garantire la massima interoperabilità possibile fra le fonti dei dati sanitari. Per l’utilizzo della telemedicina è richiesto un livello di digitalizzazione adeguato a garantire la qualità degli interventi sanitari da remoto (esempio le televisite) e che l’integrazione nei percorsi di assistenza e cura avvenga senza significativi aggravi per i professionisti sanitari. Infine, sarà necessario che l’applicazione del digital, sia nell’assistenza che nella ricerca, non venga compromessa da barriere legate alla privacy.
La protezione dei dati personali, che va comunque garantita, non deve però rappresentare motivo di paralisi del sistema, come per esempio sta avvenendo, nel campo della ricerca clinica, nel caso degli studi osservazionali retrospettivi, quelli cioè che si basano sulla raccolta e l’analisi di dati già presenti nella documentazione clinica del paziente.
In questo caso, per utilizzare ai fini di ricerca scientifica i dati dei pazienti, per ognuno di essi dovrei raccogliere il consenso informato ovvero chiedere l’autorizzazione al Garante della privacy. Tempo perso che impedisce di ottenere informazioni che possono essere preziose per il progresso medico-scientifico.
D: La sua soluzione?
R: Credo sia difficile parlare di soluzione a un problema così complesso e multidimensionale. Le cose da fare sarebbero verosimilmente molte, ma fra le tante mi sentirei di proporne una.
Costituire una Agenzia nazionale della ricerca biomedica che abbia quindi un mandato specifico, assumendosene oneri e onori. Oggi di ricerca scientifica si occupano numerose Istituzioni ed Autorità, dal Ministero della Salute, ad AIFA, Istituto Superiore dí Sanità, AGENAS, le Regioni, il Garante della Privacy etc.
Ognuna si interessa di un pezzo ma nessuna di tutto, e questa parcellizzazione tende a creare rimpalli di responsabilità, a generare ritardi, e a volte ha prodotto interventi anche in contraddizione fra di loro.
Avere un organismo che si occupi solo di ricerca, e delle diverse tipologie di essa, potrebbe rendere i percorsi più lineari e rappresentare anche un segnale del valore che il Paese attribuisce al tema della ricerca.