Per fare fronte alle richieste alimentari mondiali, alla sostenibilità e qualità delle produzioni, sostenendo i redditi dei produttori, l’occupazione e riducendo i prezzi al consumo, la genetica e le biotecnologie sono inderogabili.
La competitività dell’agricoltura italiana non può, infatti, prescindere dalla consapevolezza dei propri punti di forza e dei propri limiti. Fra i primi vanno annoverati: la biodiversità delle specie, la ricchezza delle varietà produttive, la tradizione colturale. Sconta, invece, un deficit quantitativo e qualitativo dovuto ad una superficie coltivata ridotta, sia dall’orografia del territorio, che da un ritardo all’accesso all’innovazione per il primo anello della filiera agroindustriale.
Secondo le stime dell’Ocse, nel 2030 le biotecnologie avranno un peso enorme nell’economia mondiale, incidendo per il 2,7% del Pil mondiale. In questo scenario, la loro applicazione al primario rappresenterà il 35% del totale. Inoltre, un recente studio commissionato a EY da Federchimica- Assobiotech, stima, per il mercato biotech europeo, la triplicazione delle opportunità economiche e occupazionali da qui al 2028.
Per l’Unione europea, ogni euro investito nella bioeconomia produrrà un valore aggiunto di 10 euro nell’arco dei successivi 10 anni ed ogni occupato nel settore biotech genererà altri 5 occupati nei settori dell’indotto. In questo quadro, l’obbiettivo italiano per i prossimi 10 anni dovrebbe essere quello di riprogrammare l’agenda, intensificando l’utilizzo delle biotecnologie per un sistematico miglioramento genetico delle produzioni.
Per approfondire questi temi ho intervistato Luigi Cattivelli, direttore del Centro di ricerca di Genomica e Bioinformatica del CREA.
Si parla sempre più spesso di cambiamenti climatici e del loro impatto sull’ambiente e sulle produzioni. Il vostro centro studia il ruolo dei geni coinvolti nello sviluppo delle piante e nella definizione di caratteri agronomici e qualitativi. Quanto questo può aiutare a migliorare l’adattamento delle produzioni agricole a nuovi agroecosistemi?
LC: I cambiamenti climatici hanno stravolto l’ordine di molti fattori. Innanzitutto, il tempo. Pensiamo ai raccolti dei prodotti, per esempio le vendemmie, che scontano un anticipo di un mese rispetto al passat
. Gli inverni sono più miti e brevi e questo determina un’anticipazione della fioritura e della maturazione ed inoltre modifica la diffusione dei microrganismi patogeni, così che le piante devono fare i conti anche con nuovi patogeni e parassiti, spesso descritte come emergenze fitosanitarie ma non certamente inattese se consideriamo come è cambiato il clima.
Indubbiamente, lavorare sul genoma delle piante e selezionare geni capaci di rendere le piante più adatte al clima, resistenti alle malattie o a stress come caldo o siccità può aiutare a migliorare le loro performance ed a rendere l’agricoltura competitiva anche nel futuro quando il clima cambierà ulteriormente, ma questa è un’azione di medio termine che va programmata e finanziata ora, non domani, per avere risultati tangibili nel corso dei prossimi anni.
Sostenibilità delle produzioni agricole, riduzione della chimica, lotta ai nuovi parassiti e alle nuove patologie. Sono solo alcune delle sfide che gli obbiettivi dell’agenda Europea 2030 chiede alla filiera agroalimentare. Come può essere d’aiuto la biotecnologia?
LC: Attraverso il miglioramento genetico. Sinora l’Italia ha investito pochissimo nelle biotecnologie applicate alla produzione, molto meno di Francia, Germania e Olanda, solo per restare nella comunità Europea e per non parlare di Regno Unito o USA.
Nel nostro paese sono stati avversati gli OGM, salvo poi importare prodotti geneticamente modificati dall’estero a causa della non autosufficienza della produzione interna. Per esemplificare, importiamo circa il 60% del grano tenero, il 40% del mais l’80% della soia da Canada, USA, Argentina, Francia e Spagna, per uso alimentare umano ed animale. Mais e soia molto spesso OGM posto che al di fuori dell’Europa non vige come da noi il divieto.
Cambiano le esigenze dei consumatori, che vogliono prodotti sempre più local, a filiera corta, originari del territorio, ritenendoli più salubri. Cambiano così le necessità della filiera agroindustriale che ha bisogno di disponibilità quantitative e qualitative per la produzione di alimenti. Come può essere d’aiuto la genomica?
LC: Vorrei sfatare un mito. In Italia acquistiamo e mettiamo in tavola in larghissima prevalenza sono prodotti che non hanno un’origine genetica negli ultimi 20-30 anni. Sono selezioni nuove, che portano con sé qualità necessarie per rispondere alle richieste del mercato, alle esigenze della logistica, alla competitività dei prezzi. Faccio alcuni esempi.
L’uva senza semi, il pomodoro ciliegino, le pesche a maturazione precoce (disponibili già a fine maggio), le mele moderne con la polpa “croccante” tipo Pink Lady sono alcuni esempi molto evidenti di come il miglioramento genetico abbia cambiato le piante che coltiviamo.
Il miglioramento genetico seleziona le piante per i fabbisogni della società, amplia il periodo di maturazione dei frutti, prolunga la shelf life dei prodotti raccolti (i pomodori si possono conservare in frigo per settimane), complice un gene che ne anticipa o ritarda la maturazione.
I cereali ed i legumi antichi in un contesto attuale sono obsoleti se pensati per la produzione odierna industriale. Mancano di resistenza alle condizioni climatiche attuali e di capacità produttiva, la loro coltura ha un significato culturale e ha senso solo nelle aree marginali, dove l’agricoltura non ha alternative.
Possiamo ipotizzare un’autarchia per l’alimentazione interna grazie alle biotecnologie?
LC: Non sono autarchico per principio, diverso è però rendere il paese competitivo nella produzione delle materie prime agricole.
L’Italia, purtroppo, sconta molti gap. Una superficie agricola utilizzabile ridotta ed erosa dagli insediamenti urbani ed industriali, una scarsa attenzione all’innovazione tecnologica del primo anello della filiera agro-industriale ed un mercato globale con cui confrontarsi che ha ritmi diversi. Punterei, piuttosto, a trovare un giusto equilibrio produttivo che limiti la dipendenza estera della materia prima.
Un esempio pratico di sperimentazione biotecnologica di successo condotta dal CREA?
LC: Se parliamo di risultati già in campo, io mi occupo direttamente del miglioramento genetico dell’orzo, un’attività che portiamo avanti in co-partecipazione con le industrie sementiere nazionali, e posso dire che molte delle varietà coltivate in Italia, ma anche in Spagna, sono state selezionate nel laboratorio del Centro di ricerca Genomica e Bioinformatica di Fiorenzuola dove lavoro.
Se parliamo del futuro di come cioè le biotecnologie possano cambiare le piante coltivate, allora possiamo parlare del progetto BIOTECH, un progetto finanziato dal Ministero dell’agricoltura e di cui sono coordinatore.
BIOTECH sta selezionando piante resistenti alle malattie (vite, frumento, melanzana, kiwi), piante più resistenti agli stress ambientali (pomodoro), piante più produttive (orzo, frumento, riso, pioppo) piante con migliorate caratteristiche qualitative (agrumi, uva da tavola, pomodoro, frumento).